Bovolonese morto per delle cure sbagliate: azienda ospedaliera condannata a maxi risarcimento
I familiari della vittima avevano tristemente visto spegnersi il proprio caro dopo 11 mesi di terribile agonia.
11 mesi di agonia, tra 7 diversi interventi chirurgici e 9 ricoveri, ucciso a 55 anni da un batterio che lo ha colpito nel reparto di cardiochirurgia dell’ospedale di Borgo Trento.
Bovolonese morto per delle cure sbagliate
Con i sanitari che, non rispettando probabilmente appieno le misure di prevenzione e contrasto delle infezioni ospedaliere, somministrarono una terapia antibiotica per un periodo eccessivo, rendendo ancor più vulnerabile allo sviluppo di infezioni post-operatorie la vittima.
È agghiacciante il quadro emerso dopo la morte di un bovolonese di 55 anni, per la quale il giudice Fabio D’Amore del tribunale civile di Verona ha condannato l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona a un maxi risarcimento di oltre 800.000 euro.
I familiari della vittima, assistiti da Giesse Risarcimento Danni, gruppo specializzato in casi di malasanità con sedi in tutta Italia, avevano tristemente visto spegnersi il proprio caro dopo 11 mesi di terribile agonia.
L'inizio del calvario
Tutto ebbe inizio il 14 agosto del 2011 quando F.F. accusò un forte dolore allo sterno, seguito da una sincope. Ricoverato al pronto soccorso dell’ospedale “Sacro Cuore” di Negrar e sottoposto a Tac toracica, risultò subito chiaro un quadro di dissecazione aortica, una lacerazione dello strato interno dell'aorta.
Trasferito d’urgenza all’ospedale di Borgo Trento, venne operato per più di 8 ore, con la sostituzione dell’aorta.
Un intervento eseguito alla perfezione, grazie anche alla corretta nonché rapida diagnosi preventiva. Ma un errore medico, purtroppo, avvenne sia prima, che nei giorni successivi all’operazione.
Terapia antibiotica prolungata
Come ricostruito inizialmente dai periti nominati da Giesse e successivamente confermato anche dai consulenti tecnici nominati dal giudice D’Amore, i sanitari invece che somministrare la terapia antibiotica per non oltre 48 ore - come le Linee guida raccomandano in questi casi - la prolungarono per ben 10 giorni.
“Consci di non aver rispettato appieno le misure di prevenzione e contrasto delle infezioni ospedaliere, potrebbero aver volutamente scelto di prolungare la copertura antibiotica nel tentativo di controbilanciare il rischio infettivo aumentato causato dalle verosimili carenze delineate – hanno sottolineato nella consulenza tecnica i professori Massimo Montisci e Saverio Parisi, ordinari di Medicina Legale e Malattie Infettive dell’Università di Padova, consulenti tecnici del Tribunale di Verona – Così facendo, hanno però corso il rischio contrario, cioè quello di aumentare vulnerabilità e suscettibilità del paziente allo sviluppo di infezioni, favorendo la selezione di microrganismi resistenti agli antibiotici”.
I primi sintomi dell’infezione comparvero circa due settimane dopo l’intervento, dapprima alle vie urinarie, poi con presenza di febbre, dolore toracico, aumento del versamento pericardico. Gli esami colturali attestarono prontamente la presenza dell’infezione.
Ben 9 ricoveri e 7 interventi chirurgici
Per il 55enne iniziò un terribile calvario, con il susseguirsi di ben 9 ricoveri in varie strutture ospedaliere, nelle quali si dovette via via sottoporre a 7 diversi interventi chirurgici.
Nel corso di uno dei primi interventi, la vena dell’aorta apparve già ampiamente colonizzata da processo infettivo, e perforata, con il distacco in più punti. Il corpo di F.F., sempre più debilitato e vulnerabile, venne attaccato col passare delle settimane anche da altri batteri, sempre più resistenti a ogni ciclo di antibiotici.
Gli episodi febbrili si fecero sempre più importanti, la sofferenza aumentò di giorno in giorno, fino al 18 luglio del 2012, quando il povero 55enne, giunto allo stremo dopo ormai 11 mesi tra continui ricoveri e operazioni, si spense.
“I sanitari non inquadrarono correttamente l’infezione quando questa iniziava a dare i primi segni di sé – hanno concluso i professori Montisci e Parisi nella propria perizia, richiesta dal Tribunale e ritenuta idonea a fondare la decisione in ordine alla responsabilità della Aoui di Verona – Dimisero il paziente già in stato settico, senza nessuna doverosa terapia antibiotica. La storia clinica del paziente è stata fortemente ed infaustamente condizionata dall’infezione acquisita durante il primo ricovero”.
Per i periti del tribunale, a monte di tutto vi è stata una “mancanza di revisione critica della epidemiologia locale del reparto, degli isolamenti di germi resistenti, nelle valutazioni del GIO (il Gruppo per le Infezioni Ospedaliere, ndr) che nel periodo antecedente ai fatti sembra essersi riunito solo sporadicamente – una volta in 10 mesi – senza peraltro trattare il punto di interesse in questo procedimento”.
Da qui la decisione del Giudice D’Amore, che accogliendo le istanze e le richieste presentate dai legali fiduciari di Giesse Risarcimento Danni, ha condannato l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona a versare più di 800mila euro ai familiari della vittima.
“Somministrare un medicinale per un tempo 5 volte superiore a quello indicato dalle Linee guida è equivalso a condannare il nostro assistito a una lenta, terribile agonia – sottolineano Maurizio Cibien e Daniele Andreella di Giesse San Giovanni Lupatoto – Fin dalla prima denuncia dei familiari ci siamo resi conto che qualcosa non era stato fatto come si doveva, ma la scoperta poi di quanto accaduto ci ha lasciati basiti, esterrefatti: per i nostri periti oggi F.F. sarebbe con tutta probabilità ancora vivo se non avesse contratto quella terribile infezione. Ci resta l’amara soddisfazione che le tesi da noi sostenute insieme ai nostri consulenti e ai nostri legali fiduciari, si siano rilevate fondate”.