Usura prima, violenza privata poi. Imprenditore nei guai
Pesanti i capi d'accusa per un imprenditore di Vigasio

Pesanti i capi d'accusa per un imprenditore di Vigasio
Una storia complessa e contorta, in cui il ruolo della vittima e del presunto «aguzzino» si intrecciano tra prestiti, interessi, minacce e fatture false. La storia inizia quando il titolare di una piccola cooperativa della Bassa che si occupa della realizzazione di impianti elettrici, sporge una denuncia contro un imprenditore di Vigasio , Faustino Mirandola: secondo l'uomo, di nazionalità marocchina, l'imprenditore veronese gli avrebbe concesso un prestito chiedendo in cambio interessi usurai che avrebbero raggiunto il 140 per cento della cifra originaria.
Un reato grave per il quale nel 2012 Mirandola era finito agli arresti. Ma durante il processo è accaduto davvero di tutto. Secondo il denunciante, la cifra maturata con gli interessi sarebbe stata interamente corrisposta non in denaro ma in forza lavoro: in sostanza gli operai della cooperativa avrebbero lavorato gratis per Mirandola fino a raggiungere l'importo stabilito.
La difesa, sostenuta dagli avvocati Massimo Leva e Alessandro Butturini, ha convinto però Mirandola a dire la verità e autodenunciarsi per il reato di fatture false: quelle prestazioni, che rappresenterebbero il tasso di usura, in realtà non sarebbero mai avvenute, ma sarebbero frutto di un accordo illecito tra i due: Mirandola avrebbe scaricato le fatture, mentre alla cooperativa sarebbe andato il rimborso del costo dell'iva. Una versione reputata credibile dal collegio presieduto dal giudice Marzio Bruno Guidorizzi, che per questa vicenda ha assolto Mirandola dall'accusa di usura.
L'imprenditore però è stato condannato a tre anni per un altro reato, quello di tentata violenza privata: si tratta di un altro prestito, da 15mila euro, che secondo la difesa nulla ha a che fare con la vicenda delle fatture e ancor meno dell'usura. Si tratta di un prestito, rinegoziato nel 2010 con tanto di scrittura privata, che sarebbe servito al titolare della cooperativa per l'acquisto di alcuni motori necessari alla sua attività. Quando, dopo la denuncia, il cittadino marocchino ha omesso di restituire l'importo dell'ultima fattura falsa, Mirandola avrebbe fatto pressione per riavere i pro-
pri soldi tramite telefonate e sms non proprio pacifici: da qui la condanna a tre anni.